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Intervista di Gabriele Carrer all'Onorevole Alberto Pagani
“Il rango del nostro Paese ci impone di essere all’altezza e di partecipare” al Global Cyber Cabinet, dice il capogruppo Pd in commissione Difesa rispondendo all’invito di Yigal Unna, capo delle cyber-spie di Israele. “Non vedo alternative migliori” a un ampliamento delle capacità informative dell’Ue. E sulle ultime mosse del Copasir…
Con la nascita dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, l’Italia colma un vuoto e può giocare un ruolo all’interno della cooperazione internazionale sui temi della sicurezza cibernetica. Lo confermano le parole a Formiche.net di Yigal Unna, direttore generale dell’Israel National Cyber Directorate, che ha invitato l’Italia a partecipare al Global Cyber Cabinet.
Alberto Pagani, capogruppo del Partito democratico in commissione Difesa della Camera e membro dell’Assemblea parlamentare Nato, come valuta questo invito? Il governo italiano dovrebbe accettare?
Io credo proprio di sì. Il rango del nostro Paese ci impone di esserne all’altezza e di partecipare. Ammiro molto come gli israeliani hanno saputo organizzarsi per cavarsela da soli, quando hanno capito che nessuno avrebbe garantito la sicurezza al posto loro. Anche grazie all’aiuto dei militari italiani, gli israeliani hanno imparato meglio dei loro maestri come affrontare ogni giorno le mille minacce e a cui è sottoposto un Paese circondato da vicini ostili. Bisogna riconoscere che un piccolo e giovane Stato, di soli nove milioni di abitanti, ha fatto i miracoli e ha insegnato al mondo intero come fare di necessità virtù. Il fatto che oggi siano proprio loro ad invitarci a collaborare nel campo della cybersecurity per me vale doppio.
Parlando della Cina, che mette medie potenze come Israele, ma anche l’Italia, davanti alla sfida commerciale e geopolitica, Unna ha invitato a seguire la strada “più trasparenza, più partnership, quindi meno sospetti” per conciliare innovazione e sicurezza nel quinto dominio. È la strada giusta anche per l’Italia?
Le democrazie liberali sono caratterizzate proprio da questo. La nostra forza sta nella collaborazione e nella trasparenza, perché la tutela della libertà e della privacy dei cittadini che ci caratterizza, da un punto di vista squisitamente tecnico, possono rappresentare limitazioni dell’efficacia e dell’efficienza dei dispositivi preposti alla sicurezza. La capacità di collaborare con chi condivide valori comuni compensano le limitazioni che ci imponiamo e accrescono la nostra capacità di innovazione, senza mettere in contrapposizione libertà e sicurezza. Io credo che l’Occidente debba trovare la sua forza nei propri valori di fondo, tra cui c’è la solidarietà e la collaborazione, per non perdere il vantaggio della sua superiorità tecnologica.
Con l’inizio del nuovo anno, l’Italia presiede l’Intelligence College in Europe, lanciato due anni fa a Zagabria. Perché è un’occasione importante per il nostro Paese?
Ovviamente questo avviene sulla base di un principio di turnazione, ma è un’opportunità per avanzare sul piano internazionale la nostra visione e le nostre proposte. Non esiste l’ipotesi di creare un’intelligence europea, senza che ci siano gli Stati Uniti d’Europa, ma si può progredire molto nelle capacità dei singoli Stati, specie nel campo cyber ed economico, che sono fortemente correlati, se si adotta una visione comune ed una strategia Europea. Le criticità da superare sono di ordine politico, non operativo.
Quali?
Bisogna decidere, se si vuole essere minimamente competitivi con i colossi orientali, di mettere un po’ da parte la competizione tra Paesi europei e privilegiare la collaborazione virtuosa. Il ritardo sulle tecnologie di rete 5G dovrebbe averci insegnato quanto le norme per la tutela della concorrenza nel mercato interno possono limitare le politiche pubbliche di sostegno all’innovazione ed alla ricerca, a solo vantaggio dei concorrenti cinesi. Se Ericsson o Nokia avessero beneficiato degli aiuti dell’Europa quanto Huawei ha goduto di quello della Cina, forse sarebbero in grado di stare al passo e avrebbero raggiunto lo stesso livello tecnologico. Hanno sviluppato la tecnologia di rete sostanzialmente con le loro sole forze e quindi sono rimaste un passo indietro rispetto a chi ha beneficiato del sostegno pieno del proprio Paese, che ha garantito commesse sufficienti a sostenere imponenti programmi di ricerca e sviluppo.
A settembre, durante il discorso sullo Stato dell’Unione, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha anticipato l’istituzione di un “Centro comune di conoscenza situazionale”. Un ampliamento dei poteri che potrebbe essere mal visto da alcuni Stati membri. È una strada percorribile?
Io credo che lo sia, sulle problematiche di comune interesse. Ciò arricchisce tutti e non confligge con la sovranità e l’autonomia dei singoli Stati membri, che continuano ad avvalersi dei propri strumenti informativi e di analisi, sotto la guida dei governi nazionali, che perseguono l’interesse nazionale. Se si vuole progredire anche nelle capacità strategiche comuni bisogna passare necessariamente anche dalla istituzione di capacità informative e analitiche comuni. È una sfida complessa, soprattutto per la debolezza strutturale dell’interlocutore politico europeo, che nel campo della politica estera e di sicurezza non è un decisore politico vero e proprio. Tuttavia non vedo alternative migliori, se il nostro obiettivo è smettere di lamentarci del fatto che l’Europa è un gigante economico e un nano politico.
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Dpr sulla riforma del Dipartimento per la pubblica sicurezza, è nata la Direzione centrale per la polizia scientifica e la sicurezza cibernetica, che assumerà le funzioni finora attribuite alla Polizia postale. Una rinfrescata al nome necessaria?
Direi che è la conseguenza logica a valle delle scelte che la politica ha fatto a monte. La cosmesi non mi interessa, oltre al nome nuovo bisogna che ci sia anche la sostanza. Si tratta di funzioni che sono figlie della loro storia, come la vecchia denominazione evidenzia. “Poste e telecomunicazioni” è la denominazione del vecchio settore post telegrafonico. Un tempo equivaleva a dire comunicazione, ma la rivoluzione di internet ha prodotto una metamorfosi, non un semplice progresso evolutivo. Le istituzioni, per loro natura, faticano ad assimilare cambiamenti radicali di paradigma. Si adattano meglio a un cambiamento graduale che ad una metamorfosi, ma se per questa loro lentezza e pigrizia perdono il contatto con la realtà corrono grossi rischi.
Nei giorni scorsi il Copasir ha espresso “perplessità” sulle proroghe dei vertici dell’intelligence decise dal governo nel decreto Milleproroghe e ha chiesto un confronto sulla riforma della legge 124 del 2007 che ha ristrutturato il comparto intelligence. Lei, su Formiche.net, si è già espresso a favore di “una vera e propria rivoluzione organizzativa” dicendosi però non “convinto che ci siano le condizioni politiche per farla in questa fine di legislatura”. È ancora dello stesso pensiero?
Sulla proroga non ho perplessità, la considero necessaria e opportuna, andrei oltre e modificherei la norma prevedendo per i direttori mandati quadriennali prorogabili una volta sola, cioè per una durata massima di otto anni. I mandati più brevi non hanno senso perché non danno al direttore la prospettiva temporale per sviluppare un suo progetto organizzativo e lo spingono a concentrarsi sulla quotidianità. Per altro, essendo incarichi revocabili dal presidente del Consiglio, non si capisce perché debbano durare poco ed essere prorogati tante volte. Su questo e su qualche altro aspetto puntuale penso che il Parlamento avrebbe il tempo e il modo di migliorare la normativa vigente. Il presidente del Copasir, invece di fare comunicati stampa, potrebbe fare delle proposte e metterle in discussione. Rispetto alle possibilità di attuare una riforma strutturale della legge 124 del 2007 penso che ormai si sia fatto tardi, approssimandosi a fine della legislatura, e come direbbe il poeta romagnolo Raffaello Baldini, più la tengono lunga e più si fa tardi.
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